Visto che mi hanno definito la “Anti-Murgia” (che per ora rimane il più bel complimento che abbia mai ricevuto) mi è sembrato opportuno recensire il suo ultimo libro, che del resto ha la pretesa di occuparsi di lingua italiana e quindi mi pare doveroso commentare.
Il libro inizia con un discorso che è anche condivisibile: parla del ruolo della donna in televisione, che è tendenzialmente marginale. Il ruolo centrale è solitamente ricoperto da un uomo, mentre la donna fa da stampella sorridente. L’autrice fa giustamente l’esempio del festival di San Remo, che è solo una delle tante trasmissioni in cui notiamo questa differenza. Quindi, fin qui tutto bene, diciamo.
Però, appunto, il libro si occupa di lingua italiana, e qui l’autrice dimostra che tutto sommato, anche se a usare la lingua italiana è sicuramente molto brava, quando si tratta di analizzarla farebbe bene a lasciar parlare chi è del mestiere.
Lo scopo del libro è, ovviamente, dimostrare che la lingua italiana è sessista: infatti nella quarta di copertina leggiamo:
Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica.
Quindi secondo l’autrice la lingua non si limita a descrivere una situazione, ma la influenza e la rafforza. Vediamo quali argomentazioni sono illustrate a sostegno di questa originalissima e super-scientifica ipotesi.
Inizialmente vengono analizzati i termini che definiscono una donna che parla. L’autrice cita termini come pettegola, chiacchierona, petulante, stridula, aggressiva. Forse ignora che questi aggettivi, in quanto tali, esistono anche al maschile, e non mi par proprio che vengano usati abitualmente per descrivere le donne.
Poi va avanti dicendo che tali aggettivi fanno spesso riferimento all’acutezza della voce, «trasmettendo l’idea che il suono della voce femminile aggredisca l’udito più di quanto potrà mai fare una voce maschile»: naturalmente tutti sappiamo che la voce femminile è oggettivamente diversa sul piano acustico da quella maschile e tende ad essere più acuta e stridula, ma l’autrice sceglie di dimenticarselo perché altrimenti non saprebbe dove piazzare il sessismo della lingua.
Ancora: dice che un gruppo di uomini che parlano è un “consesso dialettico” (e chi è che non usa questa espressione tutti i giorni?), mentre un gruppo di donne è un “pollaio”. A questo si aggancia per citare le metafore animali usate per descrivere le donne nell’ambito del parlare: gallina, appunto, o cornacchia.
L’uso della metafora animale è vecchio come Dio, onnipresente nelle lingue del mondo e ampiamente riscontrabile anche per il genere maschile, ma in questo caso diventa «un processo di bestializzazione che tende ad accomunare tutte le voci di donna, giovane o vecchia che sia, a uno scontato senso di fastidio».
Alla base della metafora animale ci possono essere molti processi. Se io chiamo porco un uomo, è una forma di bestializzazione, nel senso che sto evidenziando, appunto, la bestialità di quell’uomo, le sue caratteristiche negative. Se invece chiamo scimmietta una bambina, è palesemente un vezzeggiativo che con la bestializzazione non ha nulla a che fare.
Gallina e cornacchia ovviamente non sono vezzeggiativi né termini positivi in alcun modo, ma questo non significa che alla base ci sia la volontà di bestializzare le donne per affermare che il genere femminile è intrinsecamente connesso all’idea di voce irritante e fastidiosa. È una metafora molto semplice: spesso la voce femminile è acuta, e lo diventa maggiormente quando le donne si radunano in gruppo. Di conseguenza, si associa questo suono a quello prodotto da alcuni uccelli.
Chiarito questo, qual è il punto? Che l’autrice sostiene che questi termini, poiché descrivono le donne che parlano, indichino la mentalità sessista in base alla quale una donna non può permettersi di esprimere le proprie opinioni.
La disonestà intellettuale di questo ragionamento è così plateale che mi chiedo come possa aver avuto il coraggio di stamparlo su carta. Il fatto che esistano termini offensivi per indicare le donne che parlano non dimostra in alcun modo che in Italia la donna che si esprime è connotata sempre negativamente. Può certamente esserlo, tanto quanto l’uomo con un forte desiderio sessuale è un porco o un mandrillo; ma è cosa ben diversa il dire che queste parole rappresentano – e contribuiscono a determinare – la mentalità degli italiani in senso assoluto.
Dopodiché viene presentato un elenco di frasi che, a quanto pare, le donne si sentono dire in continuazione. Vediamone alcune.
– Non fare la maestrina
Questa frase, certo abbastanza diffusa, anche se non mi spingerei a definirla onnipresente nella vita delle donne, viene intepretata secondo una lettura psicanalitica che Lello Mascetti scansate: il “maschio italiano” (a proposito di linguaggio offensivo, peraltro) è traumatizzato dal ricordo della figura della maestra delle elementari, che lo faceva sentire piccolo e insignificante perché metteva in evidenza i suoi errori. Di conseguenza ogni donna che lo contraddice, anzi ogni donna intelligente, lo mette in soggezione.
Verrebbe da chiedersi dove collochiamo allora le donne che usano questa medesima frase, ma per le persone come l’autrice la risposta è semplice: misoginia interiorizzata!
Per le persone che sanno come funziona una lingua, invece, la risposta è meno succosa e sicuramente fa vendere poche copie: non c’entra niente il trauma del maschio che non sopporta di essere contraddetto, non c’entra niente il pensare che la donna intelligente sia per forza saccente. Questo è quello che volgarmente chiamiamo un modo di dire, che indica in generale una persona che si dà arie di superiorità. Perché maestrina e non maestrino? Sarebbe come chiedersi perché nel proverbio è la gatta che ci lascia lo zampino invece del gatto. Senz’altro anche quello è un esempio di sessismo linguistico.
– Vuoi sempre avere ragione
È chiaro che questa frase viene rivolta solo e unicamente alle donne! È un classico esempio di quanto sia sessista la nostra orribile lingua.
Dopodiché segue un capitolo dedicato alla rappresentanza femminile nel mondo dell’arte e della cultura, che qui non commento perché esula dalle mie competenze (quanto sarebbe bello se tutti ragionassero così).
Mi interessa invece il capitolo in cui si parla del nome con cui ci si riferisce alle donne. L’autrice sostiene che in Italia le donne che ricoprono posizioni di rilievo vengano sminuite costantemente in quanto non ci riferisce a loro con l’appellativo del loro mestiere: un medico maschio è “dottore” mentre un medico donna è “signorina”. Non voglio certo negare che casi del genere si verifichino ancora in Italia; definirli però “sistematici” mi pare eccessivo, ma naturalmente non abbiamo dei dati su cui basarci, per cui è, ovviamente, una questione di percezione personale. Nulla di male, ma sarebbe intellettualmente onesto specificarlo invece di darlo per un fatto inconfutabile.
Ma andiamo oltre; l’autrice cita i casi in cui una donna di successo è stata menzionata non con il suo titolo, nome e cognome, ma con il nome proprio (come nel caso di Samantha Cristoforetti), sostenendo, anche stavolta, che questo accada sistematicamente, anche con le donne della politica. Anche in questo caso, non voglio negare l’esistenza del fenomeno, ma potrei citare altrettanti articoli di giornale in cui una persona di sesso maschile di cui si celebravano i successi è stata chiamata col nome proprio; di solito questo avviene quando la persona è giovane, e l’intento è principalmente quello di avvicinare i lettori alla persona oggetto dell’articolo, instaurando una sorta di legame affettivo.
Per quanto riguarda le donne della politica, penso che sappiamo tutti che il linguaggio irrispettoso è usato più che altro da certi giornali, come Libero o il Giornale, che sono irrispettosi con un numero infinito di persone e di categorie, semplicemente perché non sono giornali ma carta straccia. Non mi pare proprio che al telegiornale qualcuno possa mai aver sentito dire “Maria Elena ieri ha firmato” invece de “Il ministro Boschi ieri ha firmato”.
Addirittura l’autrice cita il caso delle donne politiche straniere Hillary e Angela, sostenendo che solo in Italia, dove siamo brutti e sessisti, le chiamiamo per nome; forse si è persa il fatto che “Hillary” è letteralmente il simbolo che è comparso su magliette, spille e gadget vari per tutta la campagna delle elezioni presidenziali; quanto alla Merkel, i tedeschi addirittura la chiamano “Mutti”, cioè “mamma”. Se succedesse una roba così in Italia Michela Murgia ci scriverebbe sopra dieci libri, invece siccome succede in Germania dice che non è offensivo perché alla Merkel va bene, è lei a governarlo. Mi domando se sia andata a chiederglielo.
E poi, credo che tutti, da italiani, abbiamo sempre chiamato, ad esempio, Silvio Berlusconi con il suo nome di battesimo, così come tutti abbiamo almeno una volta nella vita usato il diminutivo Giggino per Di Maio. Ma in quel caso naturalmente non è offensivo, anzi secondo l’autrice è una forma di affetto e di apprezzamento verso il politico in questione (eh sì, Silvio nei nostri cuori proprio, Giggino poi lo chiamiamo così per segnalare il rispetto che nutriamo nei confronti di un così grande statista). Lo sentite il rumore delle unghie sullo specchio?
Sempre sul tema dei nomi, l’autrice sostiene poi che se, per un miracolo, la donna viene chiamata con il cognome, questo viene necessariamente preceduto dall’articolo determinativo: “la Boschi”, “la Gelmini” ecc. Naturalmente questa pratica è barbara e sessista, in quanto
Applicare a un cognome di donna l’articolo determinativo significa comportarsi con un nome di persona come ci si comporterebbe con un nome di cosa o con un’entità spersonalizzata, una specie di fenomeno paranormale che fa categoria a sé.
Anche qui, Mascetti chi? Se Monicelli fosse ancora vivo, farebbe un nuovo Amici Miei solo per le supercazzole di Michela Murgia. Ma come? Lei è la paladina della declinazione dei nomi di mestiere al femminile, perché il maschile nasconde, copre, soffoca, ed è quindi necessario specificare il femminile per ridare dignità alla donna! E quando nel riferirsi a un’esponente del mondo politico o culturale si usa l’articolo per premettere che quella data è persona è una femmina, si è di nuovo sessisti? Ma allora come funziona?
La Presidente onoraria dell’Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio ha provato a spiegare a Michela Murgia perché si usa l’articolo davanti ai nomi femminili, durante un’intervista sul canale Instagram della Crusca. Purtroppo, però, non ha avuto sufficiente forza dialettica ed è stata prontamente fagocitata dal carro armato delle supercazzole murgiane.
(Tra parentesi: Crusca, la prossima volta che volete parlare di linguistica con Michela Murgia, mandate me. Lo faccio gratis).
Quello che la prof.ssa Maraschio stava tentando di dire è che in linguistica esiste un concetto che si chiama “marcatezza”, che indica che cosa in una data lingua è considerato la forma base, che si chiama non marcata, mentre quella marcata è la forma a cui si aggiunge qualcosa. In italiano è il maschile a essere non marcato (non perché siamo patriarcali ma perché abbiamo avuto poi la pessima idea di chiamare ‘maschile’ questa categoria).
Di conseguenza, se io dico “Rossi” tutti voi pensate a un tizio che si chiama Rossi. Se voglio specificare che il tizio è in realtà una tizia, dirò “la Rossi”. Non c’è niente di sessista, ma è chiaro che Michela Murgia doveva pur trovarlo un modo per arrivare a riempire 80 pagine di libro.
Naturalmente non posso commentare ognuna di queste 80 pagine, che del resto non vi consiglio certo di leggere. Posso però dirvi che, se lo farete, troverete nella seconda metà una bellissima serie di esempi che rivelano il non troppo celato legame di sangue tra Michela Murgia e la massima autorità vivente in fatto di misandria, la cara Pauline Harmange di cui ho recensito non molto tempo fa il delirante libro Odio gli uomini (trovate la video-recensione qui). Chissà cosa possiamo dedurre da questa parentela.
Ah, comunque Michela Murgia cita anche delle fonti. O meglio, cita una fonte, un libro di una linguista paladina del linguaggio inclusivo. Provate a indovinare quale!