Sui social network è molto vivo il dibattito sul “problema” del genere grammaticale, considerato da alcune persone offensivo: al singolare perché ci sono persone che non si riconoscono nel genere maschile né in quello femminile, al plurale perché il collettivo coincide con il maschile e questo sarebbe discriminatorio nei confronti di chi non è maschio. Per evitare di segnalare il genere grammaticale (che in italiano è obbligatorio), sono nate alcune proposte. Vediamo quali.
Una soluzione molto frequente (sempre sui social network) è l’uso dell’asterisco: capita ormai abbastanza spesso di leggere cose come “siamo tutt* indignat*” al posto di “siamo tutti indignati”.
Nel caso dell’asterisco c’è molto poco da commentare: si tratta di un segno grafico, non linguistico, che quindi è impraticabile nel parlato. La lingua è prima orale che scritta, quindi l’asterisco non ha nessun senso di esistere.
Veniamo ora alla soluzione proposta e sostenuta da alcuni linguisti: lo schwa, il cui simbolo fonetico è [ə].
Si tratta di una vocale assente nel sistema fonologico dell’italiano, che si colloca circa a metà tra una [a] e una [e]. L’idea sarebbe che usando una vocale nuova, si eviterebbe il problema del genere.
In realtà anche questa soluzione è impraticabile nell’italiano standard perché, fonologicamente parlando, [ə] non esiste: verrebbe comunque pronunciata dalla stragrande maggioranza delle persone come [e] o [ɛ], oppure come [a].
Questo perché la nostra capacità di distinguere i suoni della lingua si basa su delle ipotesi approssimative. Quando io realizzo un suono, non lo realizzo mai due volte nello stesso modo. Ci sono infinite variazioni, poniamo, della vocale [a]. Il nostro cervello di madrelingua italiani è settato su un certo numero di fonemi, cioè di suoni che hanno un valore significativo nella nostra lingua, che si chiama valore distintivo: suoni che se scambiati con altri comportano una differenza di significato.
Un esempio classico riguarda la /r/. Se io dico “ratto” e poi dico “tatto” chi mi ascolta che cambiando la consonante iniziale è cambiato il significato della parola. Se invece dico “ratto” e poi “ʀatto” (con la cosiddetta “r moscia”) chi mi ascolta non percepisce alcuna variazione di significato, ma solo una pronuncia diversa dello stesso fonema, perché ʀ non ha valore fonologico in italiano.
Insomma, noi sappiamo, tornando alle vocali, che [a] si può pronunciare in mille variazioni diverse, ma il nostro cervello le riconduce tutte ad un’unica vocale e tramite quel riconoscimento costruisce il significato della parola che stiamo pronunciando.
Dato che [ə] non ha, per noi, valore fonologico (non è opposta a nessun altro fonema, non serve per formare parole con significato diverso), noi non la riconosciamo. Cioè: se io pronuncio [buona] e poi [buono] un parlante italiano capirà che nel primo caso sto usando un femminile e nel secondo un maschile, perché le due vocali sono fonemi dell’italiano e sostituirne una con l’altra comporta un cambio di significato.
Se invece dico [buonə], chi mi ascoltà capirà o un femminile plurale (buone) o un femminile singolare (buona) perché tenderà a collocare quella vocale in una delle due caselle, relative alle vocali che fanno parte del nostro inventario fonematico.
Tra i tanti suoni che si possono scegliere, quindi, questo è indubbiamente il meno comodo per gli italiani. A questo punto avrebbe più senso usare la vocale “-u” per indicare una sorta di neutro o un collettivo, perché si tratta di un fonema dell’italiano, quindi un suono che ha valore all’interno del nostro sistema linguistico, ma che non porta con sé un’informazione morfologica come le altre vocali.
Questo però significherebbe creare dal nulla un nuovo genere grammaticale, che potremmo chiamare “neutro”. Ma il cosiddetto “genere grammaticale” non ha principalmente la funzione di marcare il genere umano dei referenti animati (questo accade come conseguenza), ma svolge prima di tutto la funzione morfo-sintattica della concordanza: in una lingua flessiva come la nostra il genere grammaticale serve, detto in parole povere, a capire chi si riferisce a cosa, in base all’accordo. Eliminare il genere grammaticale è quindi impossibile, e crearne uno nuovo ha delle ripercussioni su tutto il sistema sintattico.
Inoltre, pensare di imporre l’introduzione di una nuova categoria morfologica significa ignorare i meccanismi del mutamento linguistico, che avviene in modo naturale obbedendo a una serie di bisogni inconsci dei parlanti, bisogni di natura linguistica: su tutti il bisogno di comunicare più informazioni usando meno sforzo cognitivo e articolatorio possibile.
Allora qual è la soluzione di fronte alle istanze di persone che si ritengono discriminate dalla presenza del genere grammaticale nella lingua, e in particolare dall’uso del maschile estensivo per il plurale collettivo?
La soluzione è una sola ed è molto semplice: la corretta informazione scientifica.
Infatti, è un errore pensare che il genere grammaticale abbia qualcosa a che fare con il genere biologico (ne ho già parlato in questo articolo). In realtà, maschile e femminile sono due categorie morfologiche che NOI abbiamo deciso di chiamare così; è la tradizione degli studi di grammatica delle lingue classiche ad aver attribuito queste etichette alle classi morfologiche. Se le avessero chiamate “Classe 1” e “Classe 2” ora non staremmo qui a discutere.
I latini avevano le medesime classi grammaticali dell’italiano, più quella che chiamiamo neutro, ma non avevano idea di come venissero classificate. Le usavano e basta. Altrettanto dovremmo fare noi, senza curarci delle etichette, che non descrivono la natura della lingua ma rappresentano semplicemente una classificazione di comodo che abbiamo inventato per schematizzarla e insegnarla nelle scuole.
Addirittura, sarebbe molto più rapido cambiare nome a queste etichette smettendo quindi di collegare la “-i” del plurale collettivo con l’idea del maschile, piuttosto che introdurre una nuova classe.
E ciò che dico non è la mia opinione, si tratta di fatti ampiamente dimostrati, e provati molto banalmente dal fatto che lingue diverse classificano gli stessi concetti in generi grammaticali diversi, senza alcun riguardo per il loro eventuale genere biologico. Del resto, come ho spiegato in un altro articolo, se davvero genere grammaticale e genere biologico coincidessero, tutte le lingue che hanno queste categorie grammaticali dovrebbero averne per forza tre, perché necessiterebbero del neutro per catalogare tutte le entità inanimate che ovviamente non hanno genere. Con questo non voglio dire che la questione del genere grammaticale sia semplice: è anzi molto complessa, e la sua origine e il suo sviluppo non sono del tutto chiari. Motivo in più per evitare di farne un argomento di conversazione pop.
Allora perché alcuni linguisti difendono così strenuamente queste innovazioni linguistiche?
Non certo perché ignorano come funziona il mutamento linguistico, o perché non sanno che maschile e femminile sono solo nomi che non significano nulla.
Intanto si tratta di un modo diverso di vedere la lingua, osservandola unicamente o quasi come un fenomeno sociale, quindi determinato soltanto da bisogni sociali, mentre la glottologia ha dimostrato già da secoli che la lingua obbedisce a bisogni suoi che solo in parte coincidono o sono influenzati da bisogni di natura sociale (dove con sociale intendo riferiti ai rapporti tra le persone, al modo in cui è organizzata la vita quotidiana ecc). Questi studiosi infatti sostengono che la lingua determina il modo di pensare e conoscere la realtà, mentre abbiamo già visto in questo articolo che questa tesi è difficilmente dimostrabile.
In secondo luogo si tratta di una questione ideologica: sono studiosi che leggono e studiano la lingua filtrandola attraverso la loro ideologia, e di conseguenza trascurano ciò che fa loro comodo trascurare.
Infine si tratta di una questione di fama: alcuni di questi studiosi cercano la popolarità, facilmente raggiungibile facendosi paladini dell’inclusività. Infatti tendono a semplificare eccessivamente le questioni in modo tale da renderle accessibili e apparentemente ovvie per tutti, ma così facendo diffondono, appunto, informazioni errate sotto il profilo scientifico.
Lo ripeto, anche se ormai siete stanchi di sentirmelo dire: prendersela con la lingua è un modo per spostare il problema. Anche se le intenzioni sono buone, i mezzi sono sbagliati, ed è dovere delle persone competenti indirizzare correttamente la popolazione, educandola.
Purtroppo, però, su questo tema non c’è reale libertà di espressione: è ormai un tema politico molto scottante, e i linguisti che non condividono tali battaglie si astengono direttamente dal commentarle, sia perché – credo – non le ritengono degne di attenzione, sia perché – soprattutto, forse – le conseguenze mediatiche e in qualche caso lavorative possono essere sgradevoli.
Sempre per restare in tema di tolleranza 😉
Fonti:
Per quanto riguarda il sistema fonematico dell’italiano e il meccanismo di riconoscimento dei fonemi, è sufficiente un qualunque manuale di base di linguistica (per esempio La linguistica, un corso introduttivo di Gaetano Berruto o Le lingue e il linguaggio di Graffi e Scalise).
Per quanto riguarda le dinamiche e le leggi che stanno alla base del mutamento linguistico, esse possono essere reperite in qualunque manuale di base di glottologia (per esempio Introduzione alla linguistica storica di Franco Fanciullo).
Per quanto riguarda la definizione della categoria grammaticale del genere, vedi Corbett, G. G. (1991), Gender, Cambridge University Press.
Per gli studi sull’origine del genere nelle lingue indoeuropee e non, vedi:
– Foundalis, H. E. (2002), “Evolution of gender in indo-european languages,” in Proceedings of the Annual Meeting of the Cognitive Science Society, Sapporo.
– Muhammad Hasan Ibrahim (1973), Grammatical Gender: Its Origin and Development, in: Janua Linguarum. Series Minor, 166, De Gruyter Mouton.
– Luraghi, S. (2011), The origin of the Proto-Indo-European gender system: Typological considerations, in Folia Linguistica 45(2).
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