Oggi vorrei affrontare il tema del linguaggio usato dai giornalisti per parlare di violenza di genere. Si tratta di un argomento spinoso, per sua natura delicato, ma in particolare in questo momento in cui è quasi onnipresente sui giornali e sui social network.
Proprio la delicatezza del tema ci pone davanti a due possibili modi di parlarne: in maniera il più possibile asettica, riportando e analizzando i fatti in modo obiettivo e razionale; oppure sfruttando l’attrazione che gli eventi gravi e la sofferenza esercitano sulle persone, parlandone in modo estremamente patetico, calcando la mano, evocando dettagli scabrosi o intimi o particolarmente commoventi.
I giornalisti scelgono il secondo modo, perché è ovviamente quello che porta più click, visualizzazioni e commenti. Da questo nascono diversi problemi: intanto, molto spesso, viene a mancare totalmente il rispetto delle persone coinvolte, siano esse vittime o accusati o colpevoli o anche solo tangenzialmente sfiorati dalla cosa, in quanto si rivelano nomi, provenienza, episodi molto personali, messaggi privati ecc.
Si punta sempre sul pathos, si pone sempre l’attenzione sul fatto che la ragazza fosse giovane, meglio ancora se era bella, piena di speranze ecce cc, si menziona la sofferenza degli amici e della famiglia, anche con punte involontariamente comiche, come in questo articolo:
Il giornalista si premura non solo di confermare che la ragazza era giovane, attiva e impegnata, ma anche di informarci che sarebbe dovuta andare in Sardegna per l’anniversario di matrimonio dei nonni e, invece, la famiglia ha annullato tutto appena saputa la notizia della sua morte. Incredibile! Un vero scoop, forse avrebbe anzi meritato un articolo tutto suo.
Qui invece ci viene rivelato che la coppia era apparentemente molto felice e nessuno avrebbe mai sospettato le violenze:
Informazioni essenziali! Mi chiedo perché non parlarci anche dei loro animali domestici o di come tagliavano il prato in giardino.
Un altro enorme problema che emerge è che, dovendo dare priorità al suscitare emozioni, negative o positive, si sacrificano la precisione e l’esattezza delle notizie riportate; non necessariamente perché si divulgano vere e proprie bufale, ma magari solo perché si usa un linguaggio non neutro, che porta il lettore a pensare in un certo modo.
Nel caso della vicenda di Palermo, che ha rappresentato il punto più basso raggiungibile dal giornalismo (diffusione di dati personali, rivelazione di dettagli raccapriccianti, proliferazione di articoli del tutto inutili per cavalcare l’onda), si è giunti addirittura alla diffusione di video fake che ritraevano uno degli accusati in atteggiamenti arroganti e gli attribuivano affermazioni molto pesanti:
Non è arrivata nessuna rettifica, nessuna smentita: chi ha letto questo e i molti altri articoli usciti ovunque, rimarrà dell’idea che il ragazzo, durante la sua permanenza in comunità, si sia messo a registrare video per fare lo scemo su TikTok vantandosi della sua impresa. Osserviamo anche brevemente il linguaggio usato in questo ignobile articolo: parole come gradasso, cattivo, compari, branco, agnellino pentito, macho ecc. portano tutte con sé un giudizio morale, una condanna dell’accusato (non condannato e quindi virtualmente innocente – ma anche se condannato comunque cittadino, persona con dei diritti) e non dovrebbero trovare spazio nella comunicazione giornalistica.
È chiaro insomma che quello che importa non è riportare in modo esatto la notizie e fornire un servizio pubblico, ma fare audience; valga per tutti questo racconto di Valentina Mira:
Come non parlare di stupro in televisione: la mia esperienza di ospite in un programma del servizio pubblico
La giornalista, invitata presso la trasmissione Filorosso su Rai3, è stata indotta a credere che si sarebbe trovata lì in qualità di professionista, per poi vedersi invece assediata dalla conduttrice che pretendeva di portarla a parlare di una violenza da lei subita in passato, facendole domande molto intime e invadenti come “è stato difficile amare, dopo?”.
Anche le donne, quindi, non sono che strumenti per generare traffico: l’empatia nei confronti della vittima è costruita, frutto di una strategia.
Qualcosa è però cambiato in positivo, almeno nel modo di descrivere le vittime di sesso femminile. In passato (fino a non molto tempo fa) si tendeva a evidenziare l’abbigliamento della vittima, oppure la sua bellezza (“l’avvenente dottoressa”, “la giovane promessa della ginnastica” e cose del genere). Molto diffuso era anche il ritornello “la amava troppo” nei casi di omicidio commesso da un partner. Ora, dopo le molte proteste (per una volta, più che giuste), i giornali hanno iniziato a cambiare registro, manifestando quasi sempre sostegno alla vittima ed evitando giudizi su di lei.
Il problema però è che anche dare sostegno alla vittima rappresenta una comunicazione corretta, perché la vittima potrebbe benissimo aver inventato tutto, e i giornali non dovrebbero dare sostegno a nessuno, ma solo riportare i fatti o analizzarli con un taglio critico che abbia un minimo di senso.
In ogni caso, il rispetto della vittima dipende molto da che mestiere fa e di che nazionalità è, nonché dalla sua identità di genere: se è una escort, scriveranno “escort stuprata” e non “donna”. Se è una donna trans, “trans stuprata”, e così via:


Da questo bisogno di caricare, esagerare, sconvolgere, coinvolgere, discende anche, o meglio soprattutto, uno dei più grossi problemi attorno a questa questione: la disinformazione riguardo ai numeri, ai dati reali del fenomeno della violenza di genere.
Pensiamo innanzitutto a come viene solitamente presentato il numero totale di omicidi con vittime femminili per anno: la cifra esatta raramente compare nei titoli, che invece preferiscono scelte linguistiche finalizzate, come sempre, a suscitare emozioni forti. Osserviamo la differenza tra questi due modi diversi di riportare lo stesso dato:
In Italia uccisa una donna ogni 3 giorni. | 120 le vittime femminili di omicidio nel 2022. |
La prima frase, sotto il profilo emotivo, è molto più efficace della seconda: dà l’impressione che il fenomeno sia costante, che abbia una cadenza regolare, e che il numero sia altissimo data l’apparentemente elevata frequenza degli omicidi. La seconda, invece, è asettica: nel 2022 sono state uccise 120 donne. Un numero che non è poi così alto, se rapportato alla popolazione femminile in Italia (più di 30 milioni); rapporto che, infatti, nessun giornale si sogna mai di mettere in evidenza. Se ci fate caso, non si parla mai di percentuale di donne uccise: il numero sarebbe così basso che a nessuno verrebbe voglia di ricondividere i post, commentare, mettere “mi piace”, e quindi a cosa servirebbero gli articoli di giornale?
Un’altra cosa interessante è che si evita di porre l’attenzione sul fatto che il numero di vittime femminili è in diminuzione, mentre è in aumento quello di vittime maschili. Vediamo questo brillante esempio:
Come vedete, l’articolo mette in evidenza il numero delle vittime facendolo precedere dall’avverbio “già”: questo induce il lettore a pensare che 70 vittime siano solo l’inizio di quella che sarà un’ancor più lunga serie. A questo contribuisce anche l’aggiunta “5 negli ultimi giorni” – completamente accessoria e sotto il profilo stilistico inadatta – che fa pensare che la cadenza di questi eventi sia fitta, che avvengano continuamente. Peraltro, se leggiamo il corpo dell’articolo, notiamo che le donne uccise in ambito famigliare sono 52, e quelle uccise da un partner o ex sono 31: perché quindi parlare di femminicidi per tutte queste morti? Difficilmente si può parlare di femminicidio se a uccidere la donna è uno sconosciuto.
La cosa più curiosa però è che, leggendo, si scopre che le vittime femminili sono diminuite in tutti gli ambiti. Naturalmente, i giornalisti sanno bene che a leggere l’intero articolo sarà solo una porzione molto piccola degli utenti. Delle vittime maschili, chiaramente, non si fa menzione alcuna (come sempre).
Il dottor Fabio Nestola, che si occupa tra le altre cose di violenza di genere, ha riassunto i numeri in uno schema aggiungendo anche quelli che riguardano gli uomini, forniti dal Viminale nello stesso documento citato da RaiNews24:

Mi permetto di far notare l’ultima riga, per farvi riflettere anche in questo caso sulla differenza tra il numero effettivo (“da 1 a 4”) e la percentuale di aumento (“+400%”). Il numero è lo stesso, ma la percezione è completamente diversa: “+400%” ci farebbe pensare a un numero enorme, se non sapessimo qual è la cifra di partenza. Se facessimo comunicazione sulle vittime maschili come la si fa su quelle femminili, insomma, la gente vedrebbe le cose in un altro modo. Ovviamente, in realtà, non andrebbe fatto per nessuno dei due generi.
Lo stesso Ministero della Giustizia nel presentare questi dati lo fa con quello stesso linguaggio allarmistico. Questo è un report del 2018, riportato sul sito Istat:
Intanto il testo si apre con un tono e uno stile che sarebbero propri di un romanzo o di un monologo teatrale, ma non certo di un documento istituzionale: “Donne uccise da uomini, perché sono donne. Questo è il femminicidio.” È una frase inaccettabile in un testo di questo tipo. Ugualmente lo sono le parole “massacro” e, ancor peggio, “genocidio”: termini che non si adattano affatto a descrivere la situazione delle donne in Italia, dato che il primo indica l’uccisione di molte persone contemporaneamente (mentre gli omicidi sono singoli), e il secondo indica un piano sistematico di distruzione di un gruppo sociale (mentre non c’è nessuna sistematicità nei cosiddetti femminicidi, compiuti da persone diverse senza alcun collegamento tra loro e senza che ci sia alcun intendo di eliminare il genere femminile dalla faccia della Terra).
Che un Ministero si esprima in questi termini è di una gravità estrema; eppure per noi è normale.
Questo report ci dà anche l’occasione di commentare la serietà di Repubblica, che l’8 settembre di quest’anno ha riesumato la felicissima espressione “numeri da genocidio”:
L’articolo, che naturalmente non si lascia scappare l’occasione di parlare di “strage” già nel titolo (parola che, ancora una volta, è completamente fuorviante), butta lì la storia del genocidio “come si legge su un report Istat”. Peccato che: 1) il report non è dell’Istat ma del Ministero della giustizia; 2) manca la fonte (un link, una menzione dettagliata, qualsiasi cosa), e si evita di dire che risale a 5 anni prima. Va detto che l’autrice dell’articolo è anche la stessa che ha scritto Patriarcato for Dummies… cosa potevamo mai aspettarci?
Contribuisce a ingigantire la percezione del fenomeno anche il modo in cui si riportano le notizie di casi di violenza in cui le vittime sono maschi: vengono riportate quasi esclusivamente da piccolissimi giornali locali, mentre i casi di vittime femminili molto più spesso vengono diffusi anche dalle testate nazionali e diventano facilmente casi mediatici. Questo, ovviamente, contribuisce moltissimo a creare l’impressione che le donne siano colpevoli molto più raramente degli uomini. Il che è vero solo in parte, perché, per esempio, tutti i tentati omicidi non vengono registrati: il sito La fionda, che pure non apprezzo per alcune posizioni ideologiche molto distanti da me, dispone di un archivio enorme in cui registra tutte le notizie che riesce a trovare sui giornali locali riguardo a vittime maschili di violenza femminile: accoltellamenti, stalking, aggressioni con l’acido, violenza domestica in generale, e ovviamente omicidi:
https://www.lafionda.com/la-violenza-femmina/
https://www.lafionda.com/la-violenza-femminile-sugli-uomini-questa-sconosciuta/
È evidente quindi che se noi ogni giorno presentassimo queste notizie sulla stampa nazionale, non ci sembrerebbe più che siano solo gli uomini a essere violenti. Certo, gli uomini muoiono meno spesso, perché magari riescono più facilmente a difendersi da un accoltellamento, ma l’intendo omicida nella donna c’era lo stesso.
A questo aggiungiamo il problema delle false accuse, difficilmente quantificabile, perché il fatto che a un’accusa non segua una condanna non significa necessariamente che l’accusa fosse falsa (intervengono purtroppo tanti elementi); ma non significa nemmeno che fosse vera, quindi perché basarsi sulle denunce per parlare per esempio della violenza domestica o delle molestie sessuali?
Perché dare per scontato che chi accusa sia nel giusto, quando nello stesso Senato è stato depositato per esempio nel 2011 un dossier sulle false accuse di violenza sessuale?
Dossier che non ha avuto alcun seguito, e di cui nessuno pare essersi accorto.
Ma c’è di peggio. Nel DDL 2530 (Bonetti, Cartabia e Lamorgese), presentato per combattere la violenza sulle donne, si forniscono i dati su denunce, condanne, patteggiamenti, assoluzioni ecc. (da pag. 45):
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01334668.pdf
Intanto vediamo che spesso le assoluzioni sono pari alle condanne, quindi metà delle denunce si è rivelata falsa. Poi ci sono tutti i casi di archiviazione che ovviamente rimangono senza risposta e quindi non li possiamo calcolare (ciò significa che la denuncia poteva essere vera, ma anche falsa); ma soprattutto, l’assurdo è condensato in questa tabella (pag. 50):

I numeri dicono chiaramente che i maltrattamenti e lo stalking sono in calo. Eppure, sotto c’è scritto che si evidenzia un TREND IN AUMENTO. Rendiamoci conto di quale livello raggiunge la mistificazione: siamo al punto che neghiamo i numeri che noi stessi esponiamo.
Se leggiamo gli articoli (pochi) sulla violenza femminile, il quadro è anche peggiore. Spesso si giustifica la donna insinuando che comunque il marito avesse delle responsabilità nella violenza che poi ha subìto:
Notiamo prima di tutto il titolo: “Aiuto, mamma ci picchia” vi sembra un titolo serio? Soprattutto perché poi in realtà la madre ha accoltellato il padre, quindi forse la prima e unica cosa da dire sarebbe stata quella. Inoltre, si sottolinea che la donna ha agito “al culmine dell’ennesima lite col marito”; solo continuando a leggere si apprende che la donna era violenta da molto tempo sia col marito che col figlio, il quale era terrorizzato.
Spesso poi si presenta la notizia come se la violenza fosse reciproca, quando non lo era:
Lite familiare finisce a coltellate, arrestata la convivente rumena
In realtà qui non è che “è finita a coltellate”: lei ha accoltellato lui, non viceversa.
Altro elemento, piuttosto aberrante, è l’uso dell’ironia o di eufemismi che sminuiscono la gravità dei fatti, soprattutto quando si tratta di violenza domestica da parte di una donna sul compagno, o addirittura quando si tratta di donne adulte che abusano di minorenni:
https://primachivasso.it/cronaca/il-marito-sorprende-la-moglie-mentre-fa-sesso-con-il-loro-figlio/
Il tenore dell’articolo è imbarazzante, pare quasi un racconto comico. E invece parliamo di una madre che ha abusato del proprio figlio.
O ancora, si mette in evidenza che i casi in cui il carnefice è donna sono pochi (cosa peraltro falsa):
Centinaia di mail all’ex marito: «Sotterro le tue ossa». Condannata per stalking
Mentre, quando la donna è vittima, i titoli spesso sono “ennesimo caso”:
E si ricorda il “femminicidio” precedente, così da aumentare l’impressione di stragi continue:
Non succede mai che questo trucco venga usato quando la vittima è un uomo; eppure si potrebbe fare la stessa identica cosa.
Quando la vittima è uomo poi si specifica anche che tutto sommato l’uomo non si è fatto troppo male:
Tutto il testo dell’articolo descrive l’uomo come un povero idiota, sminuendo la gravità delle violenze che ha subìto.
Infine, se provate a fare una ricerca su Google sulla violenza sugli uomini, noterete che non è per niente facile reperire notizie e informazioni. Intanto non esiste un nome apposito: provando a cercare “maschicidio”, parola che ovviamente non esiste ma che è stata coniata in certi ambienti di attivismo per i diritti maschili per evidenziare il differente trattamento tra vittime femminili e maschili, vengono fuori articoli provenienti da questi siti, che ovviamente potrebbero essere tacciati di poca attendibilità tanto quanto i siti femministi, oppure articoli di parodia e scherno (l’articolo di The Vision, per esempio).



Se invece cerchiamo “violenza sugli uomini”, compaiono più che altro articoli in cui l’uomo è il colpevole:


Insomma, per trovare queste notizie bisogna prendere i quotidiani locali di tutta Italia e spulciarli, che è ciò che fa Fabio Nestola sul suo profilo Facebook e La Fionda nell’archivio sopra menzionato. Rispetto a qualche mese fa, però, quando ho fatto la medesima ricerca, ho notato che qualcosa sta iniziando a smuoversi: avvocati, giuristi, volontari, stanno iniziando, seppur con scarsissima risonanza mediatica, a parlare di questo problema. Segnalo su tutti il libro Codice rosso: quando l’uomo è vittima, che potete acquistare a questo link.
Concludo questa lunga panoramica invitando tutti – ma soprattutto coloro che si definiscono femministi – a domandarsi qual è realmente la cultura dominante, quanto è davvero pervasivo il cosiddetto (fantomatico) patriarcato, se in merito alla violenza c’è una così vistosa differenza di trattamento tra vittime maschili e femminili. E non certo a favore delle prime.