Ne*ro: la lingua e il razzismo

Qual è il ruolo sociale della lingua quando si parla di discriminazioni?

La lingua può essere usata per combatterle, ma anche, ipocritamente, per fingere di combatterle.

Il termine “negro”, come sappiamo, non è di invenzione italiana ma è arrivato dall’inglese “nigger”. Etimologicamente questo termine non ha nulla di intrinsecamente offensivo: deriva dal latino niger e quindi semplicemente descriveva la pelle scura.

Ha poi assunto varie connotazioni nel corso dei secoli, non sempre negative, finché quella dispregiativa ha prevalso e, fra le varie alternative proposte (colored o people of colour per esempio) è stata scelta “black” (o “afro-American” anche).

Questo stato di cose si è trasferito nell’italiano, in cui “negro” ha assunto valore dispregiativo rispetto a “nero” che doveva essere il termine neutro o rispettoso.

Da un certo punto di vista è chiaro che se un termine ha una connotazione dispregiativa la società civile decide di sanzionarlo e sottoporlo a tabù; però è altrettanto vero, come ho sostenuto altrove, che se si dà alla sola espressione linguistica la responsabilità dei fenomeni sociali, in questo caso di discriminazione, si sta solo nascondendo la polvere sotto il tappeto.

Soprattutto quando il fenomeno non è naturale ma imposto, cosa che nel mondo occidentale accade a ondate: ogni tanto i politici o le associazioni decidono di attuare una ripulitura della lingua, come qualche decennio fa, quando fa tantissime parole italiane sono state sottoposte a tabù linguistico (cieco, spazzino, sordo, e tante altre) e sono state sostituite da eufemismi, molti dei quali poi caduti in disuso perché imposti dall’alto e per nulla sentiti dai parlanti.

È verosimile pensare che un’analoga isteria possa investire oggi i termini che hanno a che fare con alcune etnie; già ora noi abbiamo difficoltà anche ad usare il termine “nero” e sono stati creati altri eufemismi come “persona di colore”.

Questo perché di fatto se la connotazione negativa rimane, viene semplicemente spostata su un’altra parola, la quale a sua volta verrà censurata e sostituita, in un processo senza fine che addirittura comporta il rischio dell’afasia: cioè non sapere come possiamo definire quella categoria di persone senza offenderle.

Un esempio della deriva kafkiana di queste tendenze è già ravvisabile nel ritiro dei cioccolatini chiamati “morettini” (Mohrenköpfe).

Questo non significa che le parole non abbiano importanza: c’è una differenza tra il dire “negro” e il dire “nero”, così come tra il dire “omosessuale” e il dire “frocio”. Le parole hanno un peso sociale che fa sì che assumano sfumature diverse e quindi modifichino il senso della comunicazione.

Tanto è vero che la medesima parola, usata in un contesto diverso o da parlanti diversi, assume connotazioni radicalmente opposte, e nigger viene usato in alcuni ambienti con un significato positivo, di orgoglio o di affratellamento (come accaduto con il termine queer per gli omosessuali).

Inoltre la censura sociale è un fenomeno naturale della lingua, il tabù linguistico e l’eufemismo sono meccanismi che sono sempre esistiti. Bisogna però essere consapevoli che usare questi fenomeni come operazione politica risulta non solo ipocrita, perché si sposta il problema sulla lingua quando è palesemente altrove, ma anche rischioso, perché rischia di portare a un serio imbarazzo comunicativo che non contribuisce certo all’omogenea mescolanza delle minoranze nella nostra società.

Quindi, certamente non vi invito a chiamare negro il prossimo uomo di colore che vedrete, ma allo stesso modo vi invito a stare in guardia da operazioni di censura repentine, imposte e categoriche.

Piuttosto, quando incontrate una persona di colore, parlateci, e improvvisamente diventerà del tutto secondaria la fatica di cercare il giusto appellativo.