L’ipocrisia del linguaggio inclusivo.
Da molto tempo ormai ci sentiamo ripetere quotidianamente che l’italiano è una lingua maschilista, che invisibilizza le donne (recentemente si è cominciato a parlare anche di invisibilizzazione delle persone non binarie). Da questo (che in realtà, a sua volta, deriva da battaglie iniziate dal movimento femminista negli Stati Uniti, che spesso hanno avuto risvolti grotteschi[1]), derivano le linee guida stilate da Alma Sabatini nel suo Il sessismo della lingua italiana del 1986, che ancora circolano ormai ovunque: cercare di evitare il maschile non marcato (di cui ho parlato in questo video e in molti altri) e prediligere le forme doppie (tutte e tutti, colleghe e colleghi); promuovere l’uso dei femminili di mestiere; evitare di usare uomo con il significato di essere umani e scegliere invere persona, ecc ecc.
Queste forme, benché decisamente discutibili (sia per la ragione che ha indotto a idearle, sia per gli effetti che si presume producano), sono ormai entrate nell’uso, nella lingua dei media ufficiali (giornali, televisione, radio) e, in parte (molto più limitatamente), nella lingua usata in modo informale. Questo è accaduto anche perché ultimamente è diventato molto popolare l’adagio secondo il quale la lingua è uno strumento per plasmare le menti, e addirittura modificare la struttura della società[2]! Questa, che in linguistica è soltanto un’ipotesi (del tutto screditata dalla comunità scientifica nella sua formulazione più radicale, che è appunto quella che invece sta andando di moda ora), viene presentata come un fatto assodato: dobbiamo fare attenzione alle parole che usiamo (anzi, anche alle strutture morfosintattiche!), perché nel farlo costruiamo una mentalità e una visione del mondo.
Bene: date queste premesse (fallaci), ci aspetteremmo che questo linguaggio, massimamente attento alle distinzioni di genere quando necessarie e, viceversa, a non farle quando potrebbe essere dannoso, si comportasse sempre in questo modo. Insomma ci aspetteremmo che la cosa valesse per tutti: che si usasse sempre la doppia forma; che si mettesse in evidenza ciò che riguarda gli uomini e ciò che invece riguarda le donne, quando i due sessi hanno problemi diversi; e che, al contrario, non si facesse alcuna distinzione di genere quando i problemi sono uguali per tutti.
È facile invece osservare che questo non accade affatto. Esiste un macroscopico doppio standard, che emerge in quelle situazioni nelle quali sarebbe necessario mettere in evidenza il genere maschile, poiché riguardano problemi e sofferenze che colpiscono soprattutto gli uomini. In questo articolo cerco quindi di mettere in evidenza il diverso modo in cui si parla di uomini e donne in base alla convenienza della situazione, e dunque l’ipocrisia di certi battaglieri, che misteriosamente tacciono quando parlare non porterebbe acqua al loro mulino.
Premetto, per chiarezza, che questa non è una ricerca, ma è solo uno spunto di riflessione, partendo da alcuni dati che ovviamente sono incompleti: una ricerca seria si fa consultando corpora estesi e non scegliendo solo gli articoli che ci fanno comodo. Questo lo dico non solo per prevenire chi criticherà la mia metodologia dimenticandosi che questo non è un articolo scientifico o un libro, ma soprattutto per ricordarvi, anche se già lo dissi quando recensii il libro di Michela Murgia, di fare molta attenzione quando leggete certi libri che commentano il linguaggio giornalistico: attenzione a quanti articoli menzionano e attenzione alla presenza o meno di una spiegazione sui corpora a cui hanno attinto e in che modo. Io evidentemente non mi metterò qui a fare questo, perché di ricerca ne sto facendo un’altra[3], ma voglio qui solo evidenziare alcune incongruenze e ipocrisie che incontestabilmente esistono e che tutti ignorano accuratamente.
Partiamo dall’argomento nel quale questo è più evidente: i morti sul lavoro. Le percentuali in questo ambito parlano chiaro: si tratta di un problema maschile. Infatti, i morti sul lavoro sono per il 90% uomini[4]. Tuttavia questo non è un dato che si reperisce facilmente: digitando su Google “morti sul lavoro”, troverete solo articoli che parlano in modo generico di “lavoratori” (molto raramente troverete la doppia forma “lavoratori e lavoratrici”: questo come dobbiamo interpretarlo? È un nomale maschile non marcato o questi morti sono tutti uomini?), senza menzionare le differenze di genere.
Ma la cosa più divertente è che se, invece, cercate “morti sul lavoro uomini”, non solo non troverete nessun titolo che menzioni questa percentuale sconvolgente, ma addirittura troverete articoli che parlano delle donne morte sul lavoro[5]! Insomma, per scoprire che gli uomini sono la stragrande maggioranza dei morti sul lavoro – e che quindi questo è un problema di genere – bisogna evincerlo in negativo: cioè dagli articoli che menzionano quel 10% di donne morte sul lavoro. Sembra uno scherzo, ma esistono davvero[6], e alcuni di questi si trovano proprio nella prima pagina dei risultati per la ricerca “morti sul lavoro uomini”.
Qualsiasi persona dotata di un minimo di logica capirebbe che è assurdo dedicare articoli alla minoranza che muore invece che alla maggioranza: sarebbe come se, dinanzi a una situazione in cui a essere vittime di bullismo sono per il 90% bambini di provenienza estera, venissero scritti articoli per parlare del 10% di bambini figli di genitori italiani vittime di bullismo[7]. Possiamo tutti immaginare le reazioni di quella stessa area politica e sociale che, senza accorgersi della sua spettacolare ipocrisia, scrive questi articoli sulle donne morte sul lavoro.
Tuttavia questo non è solo un problema di logica e di intelligenza, ma è anche un problema linguistico: cioè riguarda il modo in cui vengono formulate le notizie. Gli attivisti femministi e gli amanti del linguaggio inclusivo non fanno che dire che il linguaggio è fondamentale: che dire dunque di un linguaggio di questo tipo? Un linguaggio evidentemente mistificatorio, che pone l’attenzione su una minima porzione delle vittime, distogliendola quindi dal genere che è maggiormente colpito da questa piaga sociale.
Non trovate che sia curioso? È obbligatorio che una donna venga chiamata architetta, sindaca, assessora, insomma che il suo genere venga evidenziato, anche quando ha evidentemente già ottenuto una condizione sociale tale da permetterle una certa parità con l’uomo; ma non è obbligatorio, anzi pare assurdo, che si metta in evidenza il genere quando a morire (e quindi a subire non solo una condizione di disparità ma letteralmente a rimetterci la vita) sono principalmente gli uomini.
Dunque il linguaggio è importante solo quando fa comodo a noi. Così come il patriarcato è malvagio solo quando fa comodo a noi, ed è chiaro che le due cose sono strettamente connesse, in questa grande pagliacciata che è la rivoluzione linguistica contro il maschilismo. È inevitabile osservarlo in questo momento, in cui la maggioranza delle notizie, ogni giorno, riguarda la guerra. La faziosità con la quale si parla di uomini e donne in questo contesto sarebbe sbalorditiva, se non fosse in realtà perfettamente in linea con l’ipocrisia oggetto di questo articolo.
Partiamo dal fatto che dall’Ucraina arrivano, in tutta Europa, profughi che per lo più appartengono alle categorie donne, bambini e anziani. Giustamente, di queste persone si parla tanto, anche perché è necessario un piano per accoglierle. Tuttavia, ben più di rado leggiamo le storie di coloro che in Ucraina sono rimasti: cioè coloro che sono costretti a combattere, e non hanno avuto la possibilità di lasciare il Paese. Chi sono costoro se non gli uomini? E non sono forse costoro a soffrire maggiormente, dato che combattono, mentre i loro parenti e amici (o meglio: le loro parenti e amiche!) hanno potuto almeno scappare[8]?
Anche in questo caso, sono interessanti le ricerche su Google: cercando “guerra in Ucraina vittime” si trovano articoli che rispettano la regola dell’inclusività di genere, e quindi si parla genericamente di “morti” (maledetto maschile non marcato!) e “vittime”, senza menzionare le percentuali in relazione al sesso, sebbene anche qui, probabilmente, una bella disparità ci sia.
Cercando “guerra in Ucraina uomini” notiamo un fenomeno interessante: la parola “uomini” viene usata come sinonimo di “soldati”[9]. Secondo l’ipotesi del determinismo linguistico potremmo scrivere interi trattati su questo! Ma naturalmente, questa sinonimia viene data per scontata e non disturba nessuno. Comunque, gli articoli che compaiono sono per lo più di “normalissime” notizie sulla quantità di soldati caduti o sulle strategie messe in campo dalle due nazioni.
Proviamo a cercare invece “guerra in Ucraina donne”: per prima cosa compaiono delle notizie riguardanti degli stupri che sarebbero stati commessi da russi ai danni di donne ucraine. Subito dopo però abbiamo titoli come “Guerra in Ucraina: le donne russe che hanno espresso dissenso”[10] o “Volti e racconti delle donne costrette a lasciare l’Ucraina”[11], o “Tutte le donne icona della guerra russo-ucraina”[12], o ancora “Guerra e Ucraina 8 marzo: il messaggio delle donne al fronte” (la piaga sociale che è l’8 marzo non manca di colpirci anche in tempi così drammatici), o addirittura – il migliore! – “I tavoli di guerra, dove le donne non ci sono”[13].
Gli esempi tratti da Google rispecchiano perfettamente il tipo di linguaggio usato anche sui social media, in televisione e in radio: in sostanza, quando si tratta di uomini non abbiamo storie di “persone”, di “individui”, di “esseri umani”, ma per lo più pedine su una scacchiera, evidentemente sacrificabili. Quando si tratta di donne, invece, abbiamo storie strappalacrime, esempi di fulgido coraggio (si veda questo su tutti, davvero così ridicolo da essere delizioso) che evidentemente mancano tra le migliaia di uomini ammazzati dai fucili e dalle mitraglie.
Tutto questo ci riporta al grande classico dei tempi di guerra: il motto “prima le donne e i bambini”. Motto che dovrebbe essere visto dai femministi come un oltraggio, esempio trasparente della cultura patriarcale che vede la donna come più debole! Eppure, siamo circondati e assordati da un plateale silenzio. Sono persino andata a controllare le pagine Facebook delle maggiori associazioni e personalità femministe d’Italia, per vedere se avessero scritto qualcosa su questo, insomma sul fatto che le donne e gli uomini sono uguali, che ne so: invece no, sono stata purtroppo sotterrata da una pletora di fotografie delle manifestazioni sull’8 marzo (per il quale vale quanto detto sopra), ricche di cartelloni alquanto disturbanti o, nei migliori dei casi, arlecchineschi, nessuno dei quali però menzionava niente del genere. Anzi, semmai l’andazzo era “il femminismo non ha mai ucciso nessuno”, “le donne non fanno la guerra” e altre amenità simili. Parrebbe dunque che la disparità tra uomo e donna sia accettabile, quando ha come conseguenza la salvezza di queste ultime.
Inutile dire che su questo tacciono anche le associazioni LGBT, che pure potrebbero domandarsi se tra quei soldati ci sia qualche omosessuale, che quindi forse, secondo il loro criterio, meriterebbe una menzione speciale.
[1] Pensiamo al pensiamo alla battaglia per trasformare mankind in humankind, ignorando che il man di quella parola non sia “uomo” bensì un termine del germanico comune, ancora esistente in tedesco, che significa genericamente “essere umano” e che ha infatti valore di indefinito.
[2] Ho parlato in questo articolo dell’ipotesi Sapir-Whorf e in questo di come essa viene applicata al genere grammaticale.
[3] Una ricerca riguardante lo schwa.
[4] Si vedano i bollettini pubblicati ogni trimestre dall’Inail: https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/pubblicazioni/bollettino-trimestrale-inail.html
[5] Questo è attualmente il primo risultato: https://www.lmconsultingsnc.it/blog/morti-sul-lavoro-le-percentuali-di-uomini-e-donne-in-italia/
[6] Questo è attualmente il secondo risultato: https://www.vegaengineering.com/comunicati/morti-sul-lavoro-quasi-100-decessi-al-mese-e-il-10-sono-donne/
[7] Sto completamente inventando, non ho idea di quali siano le percentuali sul bullismo, e non è evidentemente questo il punto della questione.
[8] So bene che ci sono anche donne che sono rimaste a combattere così come uomini che sono riusciti a scappare, ma direi che vale quanto detto sopra circa i morti sul lavoro.
[9] Per es.: “Russia a corto di uomini e tattiche” (https://www.corriere.it/esteri/22_marzo_16/aggiornamento-militare-guerra-ucraina-putin-sta-cercando-via-d-uscita-82a3d2aa-a532-11ec-8f73-d81a6d7583fb.shtml)
[10] https://tg24.sky.it/mondo/2022/03/20/guerra-ucraina-donne-russe-dissenso
[11] https://www.rainews.it/photogallery/2022/03/volti-e-racconti-delle-donne-costrette-a-lasciare-lucraina-611882c2-bb78-41f0-bfbc-38b8d6a3863f.html
[12] https://www.iodonna.it/attualita/storie-e-reportage/2022/03/16/dalla-reporter-russa-contro-putin-alla-bambina-col-fucile-e-il-lecca-lecca-tutte-le-icone-della-guerra/
[13] https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/guerra-russia-ucraina-le-donne-non-ci-sono-a-decidere-ma-la-subiscono