“Boomer” e altri animali immaginari

Era da un po’ di tempo che desideravo dedicare uno spazio a una delle parole più fastidiose, ma purtroppo più diffuse, degli ultimi anni. Come sapete, in generale non apprezzo particolarmente l’abuso di anglismi e meno che mai amo il linguaggio piatto ed insulso dei social network, quindi potete ben immaginare che reazioni mentali e fisiche mi provochino la parola “boomer” e le svariate altre neonate etichette che vanno a quanto pare molto di moda. Vediamone alcune!

Partiamo, ovviamente, dal tormentone vero, “boomer”: teoricamente è una parola creata per indicare le persone nate tra gli anni ’40 e ’60. Già così si potrebbe, secondo me, discutere sul senso e sull’utilità di questa parola, che inevitabilmente descrive o meglio crea una categoria estremamente vasta, attuando un’ovvia generalizzazione che io considero più che altro idiota. Ma eventualmente poteva avere un senso classificare rozzamente le generazioni che si sono susseguite dopo il secondo conflitto mondiale.

Però questo termine è rapidamente passato a indicare più in generale qualsiasi persona più anziana di chi lo usa, che dimostri atteggiamenti e modi di pensare ormai superati (specialmente dal punto di vista politico, sociale e tecnologico): in questo senso è quindi diventata un insulto, soprattutto perché si è diffusa con l’espressione “ok, boomer”, una risposta sarcastiche alle critiche e alle osservazioni paternalistiche delle persone più anziane.

Abbiamo quindi assistito a un proliferare di originalissime rispostine ironiche sui social network (e financo nella vita reale a onor del vero, dove ho personalmente osservato gente dire davvero ok boomer a qualcun altro), e all’acuirsi dell’idiotissimo conflitto tra “giovani” e “vecchi”. Trovo particolarmente destabile la parola boomer, infatti, proprio perché racchiude in sé una sorta di astio verso le generazioni precedenti, ritenute colpevoli dei mali odierni e dunque di tutti i problemi dei giovani, apparentemente ignari che gli stessi vecchi di merda che criticano sono quelli che hanno fatto le lotte sindacali, le lotte per il diritto all’aborto, per il divorzio e l’abolizione di leggi vetuste, insomma l’acquisizione di diritti che oggi diamo per scontati e per i quali, peraltro, noi stessi non abbiamo voglia di combattere (basti pensare al modo molto più passivo che abbiamo di affrontare lo struttamento e le ingiustizie sul lavoro, altro che occupazione delle fabbriche).

Insomma i “boomer” diventano i vecchi rincoglioniti che non sanno usare lo smartphone e quindi per questo andrebbero eliminati in quanto obsoleti, e che per giunta con le loro scelte scellerate ci hanno condotto a un mondo di precariato, senza prospettive ecc ecc. Mi sembra evidente che un simile modo di vedere le cose sia banalizzante e quindi stupido, ma nonostante questo è molto diffuso. Ecco quindi che in una sola parola si riassume un intero mondo, appiattendolo e semplificandolo.

Su internet questa tendenza alla categorizzazione sempliciotta è molto viva e porta alla creazione di etichette francamente allucinanti, che mi farebbero anche ridere se non fosse che le persone le usano per davvero e davvero scansionano la realtà sulla base di esse. Una che mi ha colpito, inizialmente più che altro perché non capivo cosa minchia volesse dire, è “snowflake”. Mi capitava, frequentando certi siti web o canali sui social network, di leggere “non fare lo snowflake” o “quel tizio è palesemente uno snowflake” ecc.

A quanto pare questa etichetta indica una persona molto sensibile, che si offende facilmente per le affermazioni o azioni degli altri. Una persona insomma ipersensibile, anche irrazionale, che non sopporta di essere messa in discussione o eventualmente fraintesa in nessun modo e quindi reagisce in modo isterico. Ma non finisce qui: lo snowflake attua poi una serie di comportamenti tipici, come bloccare sui social, interrompere, o anche minacciare. Sembra una puntata di Super Quark e invece non siamo nel regno animale ma in quello degli utenti di Facebook, evidentemente peggio della savana. Anche in questo caso naturalmente la parola diventa un insulto, e tra l’altro lo trovo divertente considerando che si usa molto proprio in quegli ambienti in cui a ogni piè sospinto si vogliono censurare parole perché offensive e discriminatorie.

Ma al di là di questo, qual è la vera utilità di una parola del genere, che fortunatamente, al contrario di boomer, non pare in procinto di entrare nel nostro lessico di alta frequenza? È un modo per semplificare la realtà, inserendo una persona in una certa categoria solo perché ha manifestato un certo comportamento. Ecco che, se io oggi reagisco male perché per l’ennesima volta mi danno della fascista quando invece sono l’opposto, divento una snowflake, lo sono anzi, e quell’etichetta mi definisce e mi incasella.

Un altro termine che ho visto abbastanza diffuso è “woke”, che parrebbe indicare qualcuno che si interessa morbosamente di diritti umani declinati anche in battaglie futili, insomma che vuole fare quello impegnato ma più che altro su questioni di lana caprina. Il che mi pare descriva peraltro il 90% delle persone attive sui social network e, purtroppo, anche fuori.

Poi c’è il “simp”, termine particolarmente detestabile secondo me, che indica un uomo che fa di tutto per conquistare una donna dalla quale è attratto, ovviamente con il fine ultimo di portarsela a letto, giungendo eventualmente a rendersi ridicolo. Ho notato che in certi ambienti qualsiasi uomo che sostenga, per esempio, i diritti femminili, viene subito etichettato come “simp” e preso in giro per questo. Anche in questo caso la stupidità di un simile processo mentale è disarmante.

Pare abbastanza diffusa anche la categoria “normie”, che indicherebbe qualcuno che si adegua agli standard sociali, alle pratiche accettate e alla mentalità comune, disprezzando le sottoculture o controculture e insomma rimanendo saldamente ancorato a ciò che è comunemente definito normale.

Ma naturalmente è il mondo incel/redpill a fornirci gli esempi più preziosi di questa ridicola tendenza. Lì infatti proliferano assurde categorie tramite le quali si classificano gli esseri umani unicamente sulla base dei loro comportamenti nei riguardi dell’altro sesso, o della loro capacità di battere chiodo. Per esempio abbiamo il “chad”, che sarebbe il tizio figo che ci sa fare e rimorchia come un matto, mentre il suo contrario è il “virgin”, quello che si fa troppi problemi a non creare fastidio agli altri, al seguire le regole anche se stupide, e naturalmente non riesce a scopare. E poi naturalmente ci sono tutte le varie declinazioni del “maschio”: alfa, beta, gamma, omega, delta e sigma. In questo caso però non me la sono sentita di approfondire perché credo che il mio cervello si sarebbe suicidato.

L’elenco è in realtà molto più lungo, e va da sé che sui canali americani, dato che come sappiamo si tratta di persone che, poverine, arrivano dove possono, queste etichette nascono come funghi. È chiaro però che questi termini, già abbastanza stupidi all’origine, diventano proprio ridicoli se inseriti in un contesto italofono: in alcuni ambienti online si assiste alla creazione di qualcosa di simile a dei pidgin, in cui la lingua di base è l’italiano ma su di essa si innestano così tante parole inglesi (spesso con radice inglese e suffisso italiano) da rendere incomprensibile il discorso.

Considerando che ultimamente pare che tutti si vantino di essere sapiosessuali (altra categoria di una stupidità spettacolare, a mio parere, ma tornerò in seguito anche sul magico mondo delle preferenze sessuali), la cosa mi confonde molto.

Al di là dell’aspetto linguistico, però, che eventualmente, con una buona dose di ottimismo, può essere valutato come una creativa sperimentazione, mi preoccupa principalmente che cosa queste etichette ci dicono sul nostro modo di ragionare.

È ovvio che le etichette, di per sé, sono sempre esistite: un tempo c’erano quelle basate sulla musica che si ascoltava e il modo in cui ci si vestiva, e quindi c’erano i punk, i metallari, i fighetti, i truzzi, i cremini, i paninari ecc. Ci sono però secondo me due differenze molto importanti.

La prima è che queste etichette erano soprattutto diffuse tra gli adolescenti, che per ovvi motivi tagliano le cose con l’accetta e vedono il mondo con contorni più netti rispetto agli adulti.

La seconda è che, anche per quelle etichette che continuavano a esistere nell’età adulta, si trattava di categorie effettivamente esistenti: cioè di gruppi sociali accomunati da una serie di valori, potremmo dire, o di abitudini, che quindi era necessario denotare con una parola. Si trattava comunque in ogni caso di generalizzazioni, questo è ovvio, ma avevano effettivamente senso di esistere, descrivevano una realtà sociale. Snowflake che cosa descrive se non un semplice atteggiamento, che in quanto tale non dovrebbe essere sufficiente a qualificare una persona?

Oltre a questo trovo che sia interessante notare quanto queste etichette proliferino, cioè quanto abbiamo la necessità di denominare ogni singola sfumatura del modo di comportarsi di una persona, come se non sapessimo come interpretarla se non le diamo un nome e non la collochiamo in uno scomparto. Credo che da questa necessità, molto infantile, nascano appunto le sedicimila declinazioni dell’attrazione sessuale, che però riservo al prossimo articolo!