Come molti sapranno, a scuola il pensiero leopardiano si studia secondo una divisione manualistica tra pessimismo storico e pessimismo cosmico. In questo articolo vedremo perché questa schematizzazione non ha senso di esistere.
Che cosa sono il pessimismo storico e il pessimismo cosmico?
Il “pessimismo storico“ sarebbe caratterizzato da visione negativa della ragione e positiva della natura. Quest’ultima vista viene come non responsabile della sofferenza umana, che è invece dovuta proprio alla ragione, quindi all’allontanamento dalla natura, all’eccesso di consapevolezza della propria condizione che induce quindi alla coscienza dell’infelicità, non prevista dalla natura.
Per questo il pessimismo storico vedrebbe la superiorità degli antichi e dei primitivi (nonché delle bestie, in quanto prive di ragione), in quanto più vicini alla natura e dunque meno infelici, perché più avvezzi a reperire le illusioni, queste ultime viste come strumenti forniti dalla natura per lenire il dolore. Quindi, questo pessimismo sarebbe “storico” perché limitato ai tempi moderni, che sono infelici, a differenza di quelli antichi.
Il “pessimismo cosmico” invece sarebbe sopraggiunto repentinamente nel 1824 e prevedrebbe un rovesciamento totale del rapporto tra natura e ragione: la natura risulta crudele, colpevole dell’infelicità degli esseri viventi, antichi compresi, che quindi erano già infelici; mentre la ragione viene vista come uno strumento di ribellione alla natura, un modo per non illudersi ma essere lucidamente consapevoli del proprio destino. Per questo, le illusioni “cadono”, quindi non vengono più considerate uno strumento valido per lenire la sofferenza.
Ovviamente, ogni divisione manualistica che racchiuda in fasi il pensiero di un autore è per forza semplicistica e riduttiva. In certa misura questo è inevitabile e necessario quando si affrontano gli autori a scuola, in quanto non si ha la possibilità di entrare troppo nel dettaglio e quindi la schematizzazione può essere utile per fornire delle coordinate di base.
Tuttavia, un conto è schematizzare e un altro è proporre scansioni che non solo sono poco accurate, ma in qualche caso son proprio false. In questo caso si tratta di una scansione che è stata proposta nei primi anni del Novecento (da Bonaventura Zumbini) e che da allora si è imposta nei manuali. Ora vi illustrerò perché non ha alcun fondamento; ma prima risponderò all’ovvia domanda:
Perché mi inalbero tanto contro questa semplificazione? Che danno fa, in fin dei conti?
La risposta ha due facce.
La prima è che, semplicemente, non vedo perché dobbiamo dire ai nostri studenti cose che non sono vere, quando è perfettamente possibile spiegare Leopardi senza falsare il dato che i suoi testi ci riportano: io l’ho fatto, senza alcun problema, senza mai menzionare alcun tipo di pessimismo.
La seconda è che in questo modo non si insegna un metodo di approccio al testo e all’autore: è importante infatti partire direttamente dai testi, spiegandoli di pari passo con la biografia, ed evitare di infilare nella mente degli studenti etichette che ovviamente li limiteranno nell’approfondimento e nella problematizzazione.
Lo studente ragiona in modo il più possibile economico, quindi gli fa comodo pensare che dal 1817 al 1824 Leopardi ha creduto nel pessimismo storico. È semplice, si impara in fretta, si ripete a pappagallo e si prende 9 all’interrogazione. Ma studiare la letteratura in questo modo è completamente inutile.
È utile invece parlare semplicemente di altezza cronologica e mezzo espressivo: cosa dice Leopardi in questa poesia del 1821? Cosa dice parallelamente nello Zibaldone nello stesso periodo? Questo aiuta a capire come si leggono i testi, come si studiano, come si problematizzano e che tipo di sintesi si deve operare per comprendere il pensiero di un autore. E soprattutto si capisce che questo non può essere granitico e privo di complessità e contraddizioni.
Dunque, vediamo come si dipana effettivamente il pensiero leopardiano in merito a natura, ragione, illusioni, antichi e moderni.
Cosa pensa Leopardi della ragione e della natura?
È senz’altro vero che la ragione è sempre stata contrapposta alla natura. È altrettanto vero che inizialmente era vista come negativa in questa dicotomia (Zib. 14 e 15). Leopardi afferma che la natura coincide con la grandezza, la ragione con l’essere piccoli. A sostegno di questo viene portato l’esempio di un malato moribondo per il quale sia impossibile la guarigione, di come la famiglia, seguendo la natura, sceglie di nutrirlo e accudirlo, nonostante razionalmente non abbia senso perché quelle cure saranno inutili.
Da questo discende la maggiore grandezza degli antichi in campo artistico, perché rappresentavano in modo diretto ciò che vedevano nella natura, mentre nei tempi moderni si filtra questa rappresentazione attraverso la ragione, sviscerando, spiegando, interpretando, e spogliando così la natura della sua bellezza (Zib. 15-17). Qui Leopardi pensa che l’uso della ragione nell’arte la inquini, mentre in seguito la vedrà diversamente e produrrà una poesia imperniata sulla consapevolezza dell’arido vero.
La natura è fortemente collegata alla capacità di produrre illusioni e nutrirsene. Le illusioni sono viste come una forma di contrappeso fornita dalla natura rispetto alla sofferenza della vita. Naturalmente, per questo, le illusioni sono incompatibili con la ragione: dove la ragione prende il sopravvento, le illusioni si spengono, perché sono il parto della natura.
Per questo Leopardi sostiene che dove c’è un eccesso di ragione che genera lo spegnimento delle illusioni, si produce la barbarie (Zib. 22). È chiaro quindi che la ragione non è nemica o negativa in sé, in assoluto, ma solo se portata all’estremo ed usata per scardinare la natura. Leopardi afferma proprio che la ragione non deve incendiare la natura, ma illuminarla. Dunque questa dicotomia non è così tanto netta: anche Zib. 1842 ce ne dà una prova. Leopardi dice infatti che la ragione è figlia della natura, quindi per quanto siano opposte, sono connaturate, l’una al servizio dell’altra.
Già da questo si capisce come il pensiero leopardiano sia ovviamente molto più complesso di come viene mediamente presentato.
Eccone un’altra dimostrazione: tra il gennaio e il febbraio del ’24 Leopardi scrive il Dialogo della Natura e di un Islandese, che nei manuali viene indicato come lo spartiacque tra le due fasi del “pessimismo” leopardiano. Eppure, nell’aprile dello stesso anno Leopardi scrive ancora nello Zibaldone (4069) che la natura aveva destinato l’uomo ai luoghi caldi, dove può stare nudo, allo stato primitivo, e che infatti lì gli uomini sono più propensi alla felicità. Dunque la natura è matrigna o no? Come vedete, non esiste uno spartiacque netto, sebbene sia vero che questa visione negativa della natura si sia consolidata negli anni fino a diventare certezza.
Cosa dice Leopardi sulla felicità degli antichi?
Anche dire che gli antichi erano felici e i moderni no è molto semplicistico: il ragionamento è ovviamente più articolato. Sempre in Zib. 22, Leopardi parla di come già in epoca repubblicana a Roma le illusioni si erano spente e per questo progressivamente si era giunti al declino della repubblica e alla decadenza rappresentata dall’istituzione imperiale. Quindi intanto bisognerebbe accordarsi su chi sarebbero gli “antichi”, di cui lui stesso parla in modo molto generico, e anche da questo è evidente che si tratta di una riflessione in divenire, che non andrebbe presa come troppo rigida.
Tuttavia, senz’altro Leopardi ritiene che gli antichi fossero meno infelici, proprio per il maggior contatto con la natura, che favorisce le illusioni e smorza la ragione. In Zib. 56 dice che c’è un modo per l’essere umano di essere in qualche modo vagamente felice, cioè vivendo in modo simile alle bestie: non solo senza esercitare la ragione, ma anche senza avere praticamente desideri o aspettative, e per questo infatti dice che i bruti sono meno infelici. In questo senso sì, gli antichi erano meno infelici perché più in contatto con la natura.
Tuttavia già nel ‘22 a queste riflessioni se ne affiancavano altre: nell’Inno ai patriarchi si mostra come l’unica forma di felicità sia coincisa per il genere umano con lo stato pre-sociale, e di fatto resa possibile non da una reale benevolenza della natura ma dalla completa ignoranza del funzionamento e dello scopo dell’universo! Infatti in questa poesia smonta il mito dell’età dell’oro. Nel ‘23 continua su questa linea in Zib. 3798 sgg, ma più avanti parlerà ancora della maggiore felicità degli antichi. Quindi non si può parlare di due fasi separate in relazione al tema della felicità degli antichi.
Cosa dice Leopardi sulla felicità e le illusioni?
In molti punti dello Zibaldone, Leopardi parla chiaramente di come l’infelicità sia sostanziale nell’essere umano: Zib. 40 e 44 parlano dell’immortalità dell’anima (che in seguito invece Leopardi riterrà fatta di materia e quindi destinata alla distruzione), dicendo che una delle prove a suo sostegno è il fatto che l’uomo sia intrinsecamente infelice mentre le bestie no.
In sostanza, gli animali sono felici perché la loro esistenza è nella finitudine, e quindi la felicità che occorre loro è contenuta, misurabile; l’uomo invece necessità di una felicità infinita, evidentemente perché la sua vita non è destinata a finire ma ha in sé l’immortalità che coincide quindi con bisogno infinito di felicità. Per questo gli uomini si suicidano e gli animali no, e questa è la prova dell’immortalità dell’anima.
In Zib. 56 del resto dice che il fine dell’esistenza non è la felicità e che quindi il suicidio non è innaturale. Non parla affatto di differenza tra antichi e moderni! E infatti del resto negli stessi anni (1817-19) scrive l’Ultimo canto di Saffo! In questo testo è proprio ad una donna dell’antichità[1] che si affida il ruolo di proclamare l’assoluta ingiustizia della vita, e se è vero che Leopardi non parla esplicitamente di colpa della natura, è altrettanto vero che Saffo dice chiaramente che la natura, che l’ha creata brutta e indesiderabile, la rifiuta, si sottrae al suo piede e alla sua presenza.
Nel ‘20 poi Leopardi scrive La Sera del dì di festa, dove dice che la natura lo fece all’affanno, e parla chiaramente dell’inanità di tutte le cose: tutto al mondo passa / e quasi orma non lascia. Anche in Zib. 84 si ribadisce che tutto è nulla. Sempre nel 1820 abbiamo anche il Mai dove leggiamo A noi le fasce / cinse il fastidio; a noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla. Eppure, secondo la ricostruzione manualistica, la consapevolezza della vanità di tutte le cose arriva con il pessimismo cosmico.
Nel 1821 (Zib. 1612), nonostante in poesia sia il periodo degli idilli, Leopardi mette in dubbio che la natura abbia creato l’uomo per la perfezione e per la felicità (cosa che poi smentirà di nuovo più avanti). Nel ’23, avvicinandosi senz’altro a idee più radicali circa il ruolo negativo della natura (Zib. 2753) dice chiaramente che in primavera la sofferenza dell’uomo e di tutti i viventi è maggiore perché “è maggiore il sentimento della vita”.
Da questo discende che chi è più vivo, cioè più energico, appassionato, vitale, soffre molto di più e regge meno facilmente il dolore. Qui Leopardi sostiene che quando agli antichi accadeva di essere pervasi dal dolore non erano in grado di sopportarlo, proprio per il loro essere più vitali.
Poco dopo dice però (Zib. 2759) che dato che l’uomo è naturalmente incline alla vita, tutte le sensazioni forti, anche se terribili, sono piacevoli perché rappresentano la vita. Quindi è evidente come il suo pensiero tornasse su se stesso e non sia possibile stabilire una separazione netta.
Tanto che in Zib. 2901 (luglio 1823) dice che l’uomo non è infelice per sua natura! Ribadisce quindi quanto detto altrove e poi in parte ritrattato, cioè che nel suo stato primitivo l’uomo sarebbe felice, ma tende ad allontanarsene: quindi l’uomo diventa imperfetto e infelice perché ha, per sua natura, la tendenza a corrompersi, a divenire per l’appunto imperfetto.
Dopodiché in Zib. 2903 dice che una volta che l’uomo si è corrotto ed è divenuto imperfetto, non c’è nulla che lo possa riportare al suo stato precedente; e dice che la natura non va in suo soccorso per salvarlo. In Zib. 3659 spiega che questo accade perché la natura, non avendo previsto i mali per l’uomo, non ha previsto nemmeno i rimedi.
Questo era già stato detto in Zib. 79, passo che mostra quanto sia articolato questo pensiero: l’infelicità della vita è sostanziale. Non è naturale il conoscerla, però, l’esserne consapevoli; per questo chi vive più vicino alla natura è meno infelice, perché non sa di esserlo. Gli antichi avevano delle risorse maggiori per contrastare l’infelicità, e avevano un diverso approccio alla vita.
Senz’altro è vero che a quest’altezza (siamo ancora prima del ‘20) si dice che è la natura stessa ad aver previsto le illusioni come “toppe” qualora si avesse contezza dell’infelicità, anche se naturalmente ciò non dovrebbe accadere.
Però, in Zib. 179 dice invece che l’infelicità dell’uomo non è necessaria o sostanziale! Il tema della sostanziale infelicità della vita e dell’obiettivo finale della vita stessa viene affrontato più volte e mai nello stesso modo: Leopardi torna sui suoi passi più volte. Anche in Zib. 172 (estate del 1820) sostiene che la natura ci abbia creato per essere contenti della nostra vita sebbene non felici perché la felicità è impossibile, ma altrove, appunto, sostiene il contrario.
Secondo la schematizzazione manualistica, Leopardi inizia a parlare della caduta delle illusioni dopo il ‘24, ma in realtà ne parla già in Zib. 85 (quindi nel 1820), dove dice che il tempo delle grandi illusioni è finito, parlando di se stesso e della perdita della speranza. Simili affermazioni si trovano anche in Zib. 106-107.
Cosa dice Leopardi sul fato?
Un’altra assurdità della divisione manualistica è il sostenere che ci sia una fase di transizione tra i due pessimismi, in cui Leopardi, per non rassegnarsi a dare le colpe alla natura, si inventa un terzo elemento: il fato, che sarebbe il colpevole dell’infelicità umana.
Questo elemento letteralmente non esiste nella riflessione leopardiana! Nell’intero Zibaldone la parola viene menzionata quattro volte: la prima volta, nel marzo 1821 (Zib. 817), la usa nel parlare del suicidio e del motivo per cui, secondo lui, non ha senso proibirlo o condannarlo in quanto contro natura dato che l’uomo si è allontanato dalla natura già da secoli; e menziona il fato, il destino degli uomini, in modo palesemente metaforico, non intendendo con questo una qualche forza che agisce per farli soffrire. Lo stesso accade in Zib. 1228.
Nel terzo caso (Zib. 3460) la parola viene citata parlando della sorte che è toccata alle opere di Alfieri, e quindi evidentemente anche qui non si tratta del fato come forza misteriosa. Infine nell’ultimo caso (Zib. 3607) Leopardi sta parlando del destino di Achille, quindi del mito.
Nelle Operette poi la parola ricorre ancora quattro volte, di cui tre nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, che parlano riferendosi a Platone e quindi anche in questo caso alla mentalità greca, e una volta nel Dialogo di Tristano e di un amico in cui si parla di destino comune degli uomini, quindi ancora una volta in senso metaforico.
Dunque dov’è che si parla del fato? Nei Canti! Che ovviamente essendo opere di natura poetica non possono che avere significato metaforico, soprattutto considerando che quello del fato è appunto un tema e un simbolo antichissimo che deriva dalla tradizione greco-romana, alla quale Leopardi, soprattutto all’inizio, è molto legato.
Per fare un esempio clamoroso, nella poesia A se stesso, che è del 1833, quindi in pienissimo “pessimismo cosmico”, si recita al gener nostro il fato / non donò che il morire: eppure qui secondo la scansione manualistica il fato non esiste più perché è la natura a essere colpevole del dolore umano!
Insomma, gli esempi che mostrano la fallacia di questa schematizzazione sono tanti.
Dunque perché ci si ostina a portare avanti questa suddivisione?
Cioè, perché non spiegare il pensiero leopardiano mostrandolo nella sua fluidità e affidando ai testi – più che alla critica – la testimonianza di cosa Leopardi ha detto?
Anche in questo caso le risposte sono due.
La prima è che i manuali di letteratura italiana sono vecchi: le nuove edizioni, che praticamente escono ogni anno, si concentrano principalmente sul rendere esteticamente più gradevoli le pagine, sull’aggiungere schemi e riassunti, sul semplificare il linguaggio, insomma sul facilitare lo studio.
I contenuti, però, rimangono antichi. Nei casi (rari) in cui vengono messe a disposizione dello studente le pagine autentiche di critica letteraria (perché l’altra assurdità e questa: ci basiamo sulle letture dei critici, ma non facciamo leggere direttamente nemmeno quelle), queste sono sempre antichissime e spesso e volentieri superate. Quindi si continua a parlare di Leopardi pessimista e non si pensa nemmeno per un attimo a svecchiare l’immagine di lui che ci portiamo dietro da due secoli, e men che meno si pensa di proporre qualche lettura nuova.
La seconda risposta è ancora più triste: molto spesso i docenti per primi non hanno idea di quale sia realmente il pensiero leopardiano, perché Leopardi non l’hanno mai letto. All’università, infatti, non è affatto obbligatorio leggere interamente i testi.
Tutto dipende dal corso monografico che viene proposto l’anno in cui si dà l’esame: se ti capita Leopardi, leggerai un pochino di Leopardi (solo i testi obbligatori, ovviamente); se ti capita Tasso, farai qualcosa su Tasso; i poeti che non ti capitano puoi tranquillamente non averli mai letti e ti laureerai lo stesso! Infatti, anche all’università si usano, per la parte generale, manuali molto simili a quelli scolastici – anzi talvolta gli stessi.
Certo, un vero appassionato di letteratura si leggerà e studierà da solo gli autori, anche se non gli vengono chiesti all’esame.
Immaginate quanto è alta la percentuale di studenti che lo fanno!
Il testo integrale in pdf dello Zibaldone può essere reperito qui: http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t226.pdf
[1] Saffo è stata una poetessa greca del VII-VI sec. a.C. In Zib. 719-720 assistiamo alla riflessione che ha condotto Leopardi a scrivere questo testo.