Vi sarete trovati tutti, di solito al quarto o quinto anno di scuola superiore, a rompervi le palle con le lezioni su Leopardi.
Ve l’hanno descritto come un gobbetto triste, depresso, solo, sempre chiuso in casa. Vi hanno detto che piangeva tutte le sue lacrime per l’amata Silvia (falso!) e che per consolarsi odiava tutto il mondo e tutti gli uomini. Forse, prima ancora di iniziare a farvelo leggere, ve l’hanno fatto odiare.
In questo articolo vi mostrerò invece un Leopardi completamente diverso: ironico, crudele, volgare, un Leopardi umano e autentico come non ve lo hanno mai fatto leggere!
Per arrivare all’anima più autentica e libera di Leopardi dobbiamo leggere il suo Epistolario: la raccolta integrale di tutte le lettere scritte e ricevute da lui negli anni. Recentemente mi sono regalata l’edizione critica, che costa la bellezza di 220€, ma il prezzo non è una scusa per non averlo letto: ci sono infatti edizioni economiche e molte lettere si trovano gratuitamente online. Quindi, cari colleghi docenti, non avete scuse.
Le lettere più divertenti sono quelle che Giacomo si scambia con il fratello Carlo, con cui ha un legame strettissimo e molto intimo; e infatti è proprio con lui che si lascia andare maggiormente. Per esempio, nel 1822, quando Leopardi finalmente riesce ad andare via da Recanati e si trova ospite dagli zii a Roma, descrive al fratello dei quadretti impietosi sulla società romana che si trova a frequentare:
«Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra»[1].
Leopardi non era certo un uomo socievole: non sopportava nessuno e aveva critiche per tutti. Non si salvano nemmeno le donne; infatti scrive così al fratello, che si immagina che a Roma si possano trovare donne a decine:
«Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete»[2].
Insomma, Leopardi non era poi quell’angelo innocente che ci hanno sempre dipinto. E ce lo conferma una lettera di Carlo, che gli scrive di quanto senta la sua mancanza:
«Sai una cosa? Io sento molto la tua assenza anche in ciò che non posso in tutto il giorno sfogarmi in un linguaggio un poco libero, non ho uno con cui ragionando accaloratamente possa buttar giù i cazzi, i per D. ecc»[3].
Al nostro Leopardi dunque piaceva non solo buttar giù i cazzi, ma persino i per D.: vi sareste mai immaginati Leopardi seduto sul colle dell’Infinito a dire parolacce e bestemmiare? Eppure è tutto vero.
Come è vero che Giacomo era anche un figlio disubbidiente che diceva bugie ai genitori (per esempio, una volta cercò di scappare di casa procurandosi un passaporto, falsificando il consenso del padre; ma di questo parleremo un’altra volta); sempre nel suo periodo romano, a un certo punto si ammala, e riceve dal padre un pacco con una medicina e la raccomandazione di usarla tutti i giorni. Però, poi, scrive al fratello:
«Non mi dir più che m’abbia cura, perché son guarito e sano come un pesce in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti, come volevano a ogni patto, ed essere stato in letto quanto m’è parso bene» [4].
Questo Leopardi ribelle e sboccato potrebbe sicuramente attrarre gli studenti molto più della sua versione edulcorata che si trova sui libri di scuola. E allora perché non parlarne?
Certo, alcune lettere forse metterebbero in imbarazzo gli insegnanti, a leggerle a voce alta; come questa di Carlo, per esempio, che si confida Giacomo su una nuova travolgente esperienza:
«Sarà una settimana e mezza che faccio l’amore, di quello finto però […] Ho una libertà grande, e t’assicuro che imparo molte cose. […] In quanto al grado che occupa nel termometro del puttanesimo, ho sentato un poco ad accertarmene, e la mia opinione era che stasse più in alto, ma ora mi sembra di aver conosciuto che non stia più avanti di Chiarina Spezioli: grand’imprudenza, gran civetteria; perfetta cognizione di tutto quel che riguarda il cazzo e la fica, ma questa più per il contorno, che per l’esperienza» [5].
Non delude anche la risposta di Giacomo, che si congratula con il fratello per la sua conquista e afferma che non c’è modo migliore di passare la Quaresima che facendo l’amore: quel tocco di blasfemia che ci piace sempre e che in Leopardi troviamo più spesso di quanto non si crederebbe.
Insomma, spesso i poeti nascondono lati oscuri e divertenti, che aiuterebbero gli studenti a riconoscersi in loro, a considerarli più umani e “veri”, e quindi a leggerne le opere in modo diverso, e non con l’entusiasmo che si mette nella lettura di un libro di preghiere!
E quando vi dicono che siete troppo sboccati o vi comportate male, ricordate: anche Leopardi bestemmiava!
[1] Roma, 25 novembre 1822.
[2] Roma, 6 dicembre 1822.
[3] Recanati, 12 dicembre 1822:
[4] Roma, 5 febbraio 1823.
[5] Recanati, 27 marzo 1823.