Perché il neutro è scomparso?

Ultimamente di neutro si sente parlare tanto; e raramente in maniera accurata!

Molti si chiedono che problema ci sia a reinserire il neutro nell’italiano, visto che era presente nella lingua da cui questo deriva, il latino.

Vediamo allora perché e in che modo il latino ha perso il neutro, che non è stato ereditato dalle lingue romanze.

La morfologia nominale del latino aveva due caratteristiche che qui ci interessano: in primo luogo, il latino aveva cinque declinazioni, cioè classi all’interno delle quali erano ripartiti i sostantivi, sulla base della vocale (o consonante) tematica; i nomi della I declinazione avevano la -a-, quelli della II la -o- e così via. All’interno delle declinazioni c’erano nomi di tutti i generi, che in latino, appunto, erano tre; e questa è la seconda caratteristica importante.

Il genere neutro non era usato per gli esseri umani (quindi, meno che mai aveva a che fare con l’inclusività!): era usato prevalentemente per entità inanimate, salvo qualche caso. Esseri umani e animali, ma anche piante, erano per lo più di genere maschile o femminile. Quindi già capite che il neutro era una categoria che conteneva meno sostantivi rispetto alle altre due: ricordiamoci di questo dettaglio, perché è importante.

Un’altra cosa importante è che le tendenze linguistiche che hanno portato alla perdita del neutro erano presenti nel latino già molti secoli prima. Infatti, alcune di queste sono attestate già nel I secolo d.C. o addirittura prima; se pensate che i più antichi documenti di volgare romanzo si attestano intorno al IX secolo, capite bene che il fenomeno è iniziato davvero con largo anticipo.

Quali sono queste tendenze?

La prima, e la più importante, è la tendenza a perdere le consonanti finali, che nella morfologia nominale erano -m e -s. In latino, la sillaba finale della parola tendeva a essere debole, e in particolare lo erano le consonanti, praticamente da subito. Molte iscrizioni, tra cui quelle di Pompei, ci testimoniano che, nel latino parlato, si tendeva a non pronunciarle.

La seconda tendenza è quella a confondere il neutro con gli altri due generi. Questo era dovuto al fatto che il neutro si confondeva col maschile al singolare, e col femminile al plurale. Per esempio, nel Satyricon di Petronio, troviamo il termine balneus, al maschile[1], che però avrebbe dovuto essere neutro.  

Quando il latino a iniziato a “morire”, trasformandosi lentamente nel protoromanzo, queste tendenze sono diventate norma: tutte le consonanti finali sono cadute, aumentando la confusione tra il neutro e gli altri due generi. La maggioranza dei nomi neutri è confluita nel maschile, perché, come abbiamo visto prima, al singolare i due generi erano molto simili, e le parole tendono a essere ereditate nella lingua di arrivo nella forma singolare. Alcuni termini però sono invece diventati femminili: così da donum abbiamo dono, maschile, ma da malum abbiamo mela, femminile.

Perché è stato il neutro a confluire negli altri due generi, e non il maschile, o il femminile? Non per una questione sociale, o logica, o semantica: ma semplicemente perché il neutro era, tra le tre, la classe meno produttiva. Cioè, quella che conteneva meno nomi, come abbiamo detto prima. È evidente che, se si deve sacrificare qualcosa, è più immediato sacrificare l’elemento meno rappresentato, meno produttivo, appunto.

Questo ci fa intuire che il genere grammaticale è arbitrario e non segue una reale logica. Infatti, con la caduta del sistema dei casi, e quindi la perdita delle declinazioni, anche molti nomi non neutri hanno cambiato genere, perché il criterio per collocarli nelle due classi nominali residue (cioè il genere maschile e il genere femminile) era la vocale che li caratterizzava: i nomi della IV declinazione, che erano in -u-, sono stati accomunati a quelli della II in -o- (la u breve diventa o in italiano). Dato che nella II i nomi erano in prevalenza maschili, tutti i nomi che presentavano ­-o- (e quindi anche quelli della IV che erano stati assimilati) sono diventati tutti maschili, anche se erano femminili: acus era femminile, oggi in italiano è maschile (ago).

Questo mutamento non è avvenuto per decisione di nessuno! I parlanti non lo hanno nemmeno percepito. Oltretutto, nessuno di loro ragionava in termini di genere grammaticale, perché la stragrande maggioranza dei parlanti la grammatica non sapeva cosa fosse.

Tutto questo cosa ci insegna?

Anzitutto, dato che le prime testimonianze di confusione tra i generi risalgono addirittura a prima di Cristo, così come la caduta delle consonanti finali, è evidente che il mutamento è qualcosa di estremamente lento e del tutto inconsapevole.

Inoltre, un’altra cosa importante è che questa perdita si è diffusa in tutta la Romània[2] – il rumeno non si può considerare una vera eccezione perché più che avere il neutro ha parole ambigeneri – proprio perché è dovuta a una tendenza del latino molto antica. Questo dimostra che la lingua muta a livello strutturale secondo i propri bisogni e le proprie caratteristiche e non in base a chi la parla.

Naturalmente poi, nel corso dei secoli, le lingue romanze si sono diversificate moltissimo; ma, se ci fate caso, nessuna ha acquisito classi nominali in più o ha stravolto completamente la morfologia del latino. L’unica cosa che è accaduta è stata l’acquisizione di modi verbali nuovi, come il condizionale, che però in realtà bilancia la perdita di altri, come in italiano il participio, che esiste ma non ha praticamente più valore verbale, nel caso del presente, ed è molto poco produttivo anche al passato; o il gerundio di cui è rimasta solo una forma cristallizzata di uso molto ridotto. La lingua tende sempre ad equilibrare il proprio sistema, e solitamente un’acquisizione è il bilanciamento di una perdita.

In ogni caso, appunto, i mutamenti morfologici e sintattici sono stati per lo più molto simili: l’acquisizione dell’articolo a partire dal pronome dimostrativo, la formazione del comparativo perifrastico o con magis o con plus, il cambio dell’ordine delle parole da SOV a SVO[3] ecc.

L’osservazione della storia del neutro ci permette di capire come funziona il mutamento linguistico: e cioè in modo completamente diverso da come oggi si insiste a voler sostenere. Ma naturalmente, non è solo il latino a mostrarci il fenomeno secondo queste caratteristiche: hanno funzionato così tutte le lingue naturali di cui siamo a conoscenza. Questo ha permesso alla linguistica storica di formulare delle “leggi”, cioè delle predizioni su come si comportano le lingue; ovviamente non sono leggi vere e proprie, non possiamo dimostrarle e darle per certe, ma sono tendenze che possiamo considerare universalmente valide con un ragionevole grado di sicurezza.

Detto questo, non ci è dato conoscere il futuro. Ma, a mio parere, se si decide di formulare un piano di rivoluzione sociale e linguistica, sarebbe opportuno farlo basandosi su ciò che sappiamo, piuttosto che su ipotesi fantasiose!


[1] Satyricon, XLI.

[2] Si indica con questo nome l’area in cui si parlava latino e in cui oggi si parlano le lingue romanze.

[3] In latino l’ordine delle parole era Soggetto, Oggetto e Verbo; nelle lingue romanze è diventato Soggetto, Verbo e Oggetto: puella canem amat è diventato la ragazza ama il cane.

Riferimenti utili:

Per una trattazione scorrevole e completa del passaggio dal latino all’italiano, vedi Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Giuseppe Patota, Il Mulino, 2002.

Per una panoramica sulle lingue romanze, vedi Il latino e le lingue romanze, Alberto Varvaro, Il Mulino, 2014.

Per un approfondimento sul cambio di genere dei nomi neutri nel francese, vedi Development of gender classifications: Modeling the historical change from Latin to French, Polinsky, Maria & Van Everbroeck, Ezra & Comrie, Bernard & Cottrell, Gary & Elman, Jeffrey & Gensler, Orin & Jackson, Dan & Jurafsky, Dan, 2000.